top of page

LA STRADA NEL BOSCO

 

 

 

    Se non lo avesse incontrato non avrebbe mai saputo come trovare la via del ritorno.

Mattia cammina dietro al cane che, scodinzolando, lo porta fuori dal bosco. L’animale lo precede velocemente per poi tornare ogni tanto indietro fino a sfiorargli le gambe, come ad assicurarsi di essere seguito. 

Poco dopo appare il prato e finalmente, laggiù in fondo, il giardino di casa!

 

    La villetta, al margine del paese, era collegata alla piazza principale da una strada stretta, un po’ in salita, costeggiata da pini alternati a cipressi. Era stato il nonno di Mattia a piantarli, tanti anni prima.

Sul retro, il giardino era semplice: un prato verde ben tagliato e due aiuole ai lati della porta di cucina, coltivate a roseti. Quelli li aveva voluti la nonna: esibivano tutte le sfumature del rosa, dal più pallido fino alla tonalità che lei chiamava “ Queen Elisabeth”, ed erano sempre in fiore.

O almeno lo erano quando Mattia passava le vacanze estive in quella casa di campagna.

Quando i genitori lo avevano portato lì la prima volta, aveva pochi mesi; poi ci aveva trascorso ogni estate, fino all’adolescenza.

Oltre il muretto che circondava il giardino c’era un prato immenso, a cui si accedeva superando un cancello di ferro che si apriva su un viottolo bianco. 

Attraversato un ruscello grazie a un ponticello a schiena d’asino, quel sentiero di terra battuta ricoperta di brecciolino puntava dritto verso il bosco che, con la sua sagoma scura, si stagliava alla base della collina… laggiù, lontano.

Lontano per Mattia, per i suoi piccoli passi; in realtà distava poco più di cento metri.

Fin da piccolo aveva sentito una forte attrazione per quella linea diritta e bianca: era affascinato dal mistero della massa verde in cui si perdeva.

Ma gli era sempre stato proibito superare il ruscello.

Quel giorno invece gli avevano permesso di andare oltre, subito dopo il ponte. Qui uno dei due cipressi – che simmetricamente incorniciavano l’accesso alla casa, arrivando dal bosco – si era ammalato ed era stato abbattuto. 

Il tronco, segato a poche decine di centimetri da terra, si era trasformato così in un comodo sedile.

Mattia, seduto su quel grande cerchio di legno, ne osservava le linee concentriche che il sole e le piogge avevano già scavato e messo in rilievo, e ne percorreva i solchi con le dita; dal centro verso l’esterno scopriva così l’età di quel grande vecchio ormai morto, ne contava gli anni:

“Uno, due, tre, quattro, cinque… quaranta… cinquanta…”

Artù, il golden retriever che lo seguiva sempre come un’ombra, si era addormentato ai suoi piedi; il rumore lieve dell’acqua del ruscello era l’unico suono percettibile, se si escludeva quello dell’erba secca del prato che ogni tanto si faceva sentire come un soffio sotto le calde folate di vento. 

Il sole non bruciava più, era tiepido ma ancora luminoso: non avrebbe fatto buio prima di parecchie ore.

“…settantadue, settantatré, settantaquattro…”

 

    Ecco: ora Artù ronfa, rassicurato e cullato dalla voce del suo padrone. Mattia ha gli occhi puntati sul bosco.

Come non lo avesse deciso lui, si alza richiamato da qualcosa di superiore, come avviene in certi film di fantascienza.

“…ottantotto, ottantanove, novanta…”

Cammina spedito dritto verso il bosco senza guardarsi indietro e continuando a contare: non più gli anni del cipresso… forse i suoi passi.

Il sole è dolce e lo scricchiolare della ghiaia sotto i piedi si accompagna al fruscìo dell’erba secca, mossa dal soffio del vento. Il prato, attraversato dal sentiero, sembra un mare increspato da sinuose correnti. Mattia procede deciso.

“… novantacinque, novantasei, novantasette…”

Poi, finalmente, non percepisce più il calore sulla testa, ma il fresco degli alberi che lo sovrastano.

E sente mille rumori! 

Le foglie e i rami degli alberi cantano più dell’erba del prato, sotto le carezze del vento. 

Improvvisamente gli sembra di ascoltare un concerto suonato da tanti strumenti.

Cicale, cinguettii di uccelli, scricchiolii… e farfalle! 

Tante, bianche e svolazzanti. Come sono belle! 

Incantato, cerca di prenderle rincorrendole e saltando per afferrarle; così facendo si volta indietro e vede – incorniciati dalle quinte scure degli alberi – il grande prato, il ponticello con il suo guardiano – il cipresso – e la casa laggiù in fondo, inondata dal sole.

Si accorge anche di qualcosa di scuro  che si muove in controluce sul viottolo appena percorso.

È un merlo, che sembra seguirlo: zampetta dietro di lui cercando qualche verme da mangiare.

Mattia rammenta di avere in tasca un pezzo della brioche che non ha finito a merenda, e gli torna in mente la novella che suo padre gli raccontava, quella di Pollicino! 

“Tanto non ho bisogno di lasciare dei segni per tornare a casa: andrò sempre dritto, così non potrò perdermi.”

Sbriciola la brioche gettandola verso il merlo che ne approfitta subito; poi procede lasciando dietro di sé tutta la merenda in mollichelle, seguito dall’uccello.

Improvvisamente un suono costante, secco e sempre uguale, lo blocca:

“Toc… toc… toc… toc toc toc toc toc toc… toc… toc toc…”

“È il picchio!” – grida – e si ricorda dell’unica volta che suo padre lo ha portato nel bosco, sulle spalle, e gli ha fatto scoprire cosa fosse quel rumore. Alza gli occhi per cercare di individuare da dove proviene il suono e, seguendolo a naso in su, si incammina verso un sentiero che gira a destra e si inoltra in un fitto sottobosco di felci.

Il sole, che fino a poco prima filtrava attraverso le chiome degli alberi disegnando sul suo volto e per terra delle bolle di luce, non si vede più. Ora una luminosità uniforme, sempre più grigia e opaca, lo avvolge mentre prosegue veloce a testa alta, concentrato alla ricerca del picchio.

Inciampa in una radice, e si ritrova con il viso quasi a terra.

“Un fiore giallo!”

In uno slargo senza felci, fra le radici di un albero, è sbocciato un fiorellino carnoso di un giallo intenso, coronato da un ciuffo di foglie verdissime.

“Lo porto a mamma, è il suo colore preferito!”

Lo coglie con attenzione, e il fiore si lascia recidere senza opporre resistenza: è poco più di un filo d’erba, non è che un “pisciacane”; Mattia lo sa, ma per lui è bellissimo perché è giallo: lo deve regalare alla sua mamma.

Lo ripone delicatamente in tasca, al posto della brioche, per non sciuparlo.

 “Toc… toc… toc… toc toc toc toc toc toc…”

Adesso però il picchio sembra abbia cambiato posizione, non si capisce proprio da dove venga il rumore, che sembra ormai lontano.

Il sole non filtra da nessuna parte, tutto intorno è sempre più scuro.

Mattia si volta indietro. 

Non vede il prato, né il cipresso, né la casa.

Però sa di essere andato sempre diritto, o almeno così crede: tornerà sui suoi passi, nella direzione opposta.

Si incammina, deciso.

Si fa sempre più buio.

Prosegue in linea retta.

Tutto è più scuro.

Ora il sottobosco sembra avere inghiottito il sentiero: è costretto a procedere più velocemente per superare la resistenza che le foglie oppongono alle sue gambe.

Le felci diventano sempre più grandi, ormai gli arrivano alla vita, e in qualunque direzione guardi vede solo un mare verde, immobile e identico da ogni lato.

In alto i rami frondosi e compatti sembrano un cielo buio, senza stelle.

Si ferma.

Ha paura.

Si gira su sé stesso: guarda indietro, in avanti, a destra, a sinistra.

Solo alberi.

Il silenzio è assoluto, niente più il toc toc del picchio, non un cinguettio, non si muove una foglia.

Tutto è sospeso.

“Non so come tornare.”

Poi un fruscìo fra le felci – prima leggero poi sempre più forte – si avvicina… velocemente gli arriva a ridosso.

Artù!

“Artù, Artù, Artù Artù, Artù, Artù, Artù!”

Il cane gli salta intorno, felice e sempre più eccitato nel sentir chiamare il proprio nome con tanto entusiasmo.

Mattia ora lo segue attraverso il bosco, sicuro di tornare a casa.

Ecco.

 

 

 

 

    “…centoquindici, centosedici, centodiciassette…”

“Matìa! Matìa!”

Mattia, che non si era mai mosso dal tronco da quando aveva iniziato a contare, con le dita sugli ultimi anni del cipresso, vicino alla corteccia, si interruppe e si girò lentamente verso la voce che lo chiamava, sussurrando:

“Mamma…?”

“Matìa, a casa adesso. Andiamo, su, che devi prendere tua pillola.”

Era Olena, la badante Ucraina, che lo aiutava ad alzare il peso del suo corpo di ottantenne e lo prendeva sottobraccio, assecondando i suoi brevi passi incerti.

Attraversarono molto lentamente il ponticello, seguiti da Artù.

Mentre Olena richiudeva dietro di sé il cancello del giardino, Mattia infilò la mano in tasca. 

“Ho un fiore per te!”

Sentì, fra le dita, la brioche. 

“La prossima volta, mamma.”

Il racconto è pubblicato nel libro
QUI SI INCROCIANO CERTE STORIE
Incontri

Per scrivermi o lasciare un commento utilizza il modulo qui sotto.

Grazie per avermi scritto, ti risponderò appena possibile.

© 2019 - 2020 Nicola Civinini - Italia, Roma.

bottom of page