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RICETTE SEGRETE

 

 

  Non sono mai stato goloso, forse nemmeno un buongustaio.

Se dipendesse da me tutta questa recente e osannata ondata di cuochi televisivi non sarebbe proprio esistita, sia come spettacolo di intrattenimento che nell’applicazione pratica. Prova ne è che recentemente, invitato nel ristorante di una fra le più famose di queste nuove star, se il maître di sala non mi avesse spiegato – sciorinandomi una noiosissima descrizione carica di aggettivi artificiosi ed esotici – quali fossero gli ingredienti e i condimenti del piatto che stava per servirmi, non ne avrei riconosciuto neanche la metà.

L’unica cosa positiva di quella cena è stata la quantità, microscopica, delle porzioni.

 

  Mi si deve perdonare: probabilmente non posso essere un gourmet perché sono cresciuto in una famiglia in cui non si amava cucinare. Mia madre detestava stare ai fornelli: spirito libero e artistico, preferiva leggere, scrivere, disegnare, ricamare. Creava, per me e i miei fratelli, giochi, burattini e costumi di Carnevale e ci raccontava favole sempre nuove, che inventava sul momento. 

E questo, a noi bambini, piaceva più di qualunque leccornia.

Gli unici ricordi che ho della mia infanzia, legati al piacere del cibo, risalgono ai primi anni di vita, quando vivevamo ancora nella grande casa di famiglia insieme ai nonni, agli zii e le prozie.

Una delle prozie, Palmira – zia Mina – faceva da mangiare benissimo, e le stanze della cucina erano il suo regno. Era la primogenita e quando, all’età di diciotto anni, le era morta la madre, l’aveva rimpiazzata occupandosi dei tre fratelli più piccoli e crescendoli come dei figli. Per questa ragione non aveva mai avuto l’opportunità, né il tempo, per pensare a metter su una famiglia tutta sua. 

Io la ricordo, già anziana, sempre in coppia con la sorella minore, Margherita, rimasta anche lei zitella a causa della triste storia di un amore impossibile.

Erano appellate da tutti signorine… e guai a chiamarle ‘signora’!

Evidentemente, conducendo una vita tutta ‘casa e chiesa’, nonostante l’età avanzata ci tenevano ad essere denominate così, come se quel titolo fosse prova e vessillo di verginità.

Insomma Mina aveva portato avanti la famiglia nel migliore dei modi, per tutta la vita, occupandosi del padre e dei fratelli.  E di sicuro, oltre alla prima edizione de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, aveva ereditato dalla madre anche le doti culinarie, perché la sua bravura era riconosciuta da tutti.

Era soprattutto divenuto leggendario il suo Latte alla portoghese : per me il primo ricordo d’infanzia legato al piacere del palato.

 

  Tempo fa ebbi il desiderio di gustare ancora quel dolce come lo faceva lei, e mi misi in testa di provare a prepararlo secondo la sua ricetta. Ricordavo che, come per altri piatti, la zia aveva modificato sulla sua esperienza alcuni dettagli delle istruzioni dettate da Artusi, annotando i cambiamenti a margine del testo o aggiungendo dei foglietti – una sorta di pizzini – appuntati alle pagine del libro con degli spilli da sarto.

Ritrovarmi in mano quel vecchio volume fu un’esperienza; intanto lo ricordavo molto più grande e pesante: è incredibile come la percezione della dimensione degli oggetti, come quella dei luoghi, cambi dall’infanzia all’età adulta; e poi quel libro aveva assunto un aspetto più vissuto: era ingiallito, consumato, e negli anni la copertina si era rovinata fino a dover essere sostituita con un cartoncino sul quale era stato copiato, a mano, il titolo e il nome dell’autore. Non ricordavo ci fossero così tante annotazioni, soprattutto di quelle riportate su fogli allegati. Riconobbi le note che aveva scritto già mia bisnonna – prima che il libro passasse a Mina – dalla calligrafia, bella e minuscola, ma soprattutto dal tipo di inchiostro: viola. Le lettere della bisnonna (ce n’erano tante conservate in casa) sembravano delle miniature ed erano tutte redatte con quel colore. L’inchiostro usato dalla zia era invece color seppia, e anche il suo modo di scrivere era ben riconoscibile: non elegante come quello della madre, ma mostrava uno stile molto leggero, con linee svolazzanti e delicate.

Invece di cercare subito la ricetta del Latte alla portoghese, mi persi fra quegli scritti a tentare di decifrare gli appunti delle mie antenate, affascinato dalle loro calligrafie e dall’uso di numerose parole ormai desuete. Gli spilli si erano arrugginiti, e facevano corpo con le pagine del libro e i biglietti i quali, spesso, erano sottilissimi, poco più spessi di una carta velina.

 

  Fui attratto da un pizzino più grande degli altri, piegato su se stesso almeno quattro volte. Lo spillo che lo teneva ancorato alla pagina era totalmente incastrato a causa della ruggine.

Nella parte esterna, a vista, si leggeva: ‘Pappa col pomidoro di Ersilia’.

La cugina Ersilia! Ricordavo i racconti di zia Mina, quando parlava di quella cugina, cui era molto affezionata, che abitava in montagna e dalla quale, da adolescente, aveva vissuto per un anno intero per aiutarla alla nascita di Giacomo, il suo unico figlio.

Ne parlava sempre con nostalgia e come di un periodo bellissimo, forse il più bello della sua vita – diceva.

Ecco: così ricordai che c’era un altro cibo che mi riconduceva all’infanzia: era proprio la pappa col pomodoro, che adoravo! Perché non provare a cucinare anche quella?

Tentai di sfilare lo spillo che tratteneva la ricetta, ma si spezzò subito, lasciando sulla pagina, e sulle mie dita, polvere di ruggine. La calligrafia era diversa: era stato usato inchiostro nero, ormai tendente al marrone, e lo stile era più lineare… meno stravagante. Il foglio, stretto e lungo, risultava piegato una volta in verticale e tre in orizzontale. La carta appariva secca: era croccante, e le pieghe, costrette fra le pagine del libro per decine e decine di anni, resistevano al mio tentativo di distenderle, come se il foglio si rifiutasse di ritrovare la memoria della sua originale planarità. La ricetta si trovava riportata tutta nella metà superiore del biglietto, mentre la parte in basso era vuota. 

Avevo con me quaderno e matita, e la copiai.

Poi, terminata la scrittura, nell’intento di riporre il foglio nella identica posizione in cui lo avevo trovato – influenzato dalla sacralità di quelle carte – lo ripiegai una prima volta e… sul retro… mi accorsi improvvisamente di una piccola scritta sbiadita, capovolta, appena percettibile.

Riaprii la pagina, e la girai.

 

Mina, amore mio…

 

  Cosa? Mina, amore mio?

Ebbi un tuffo al cuore. Cercai disperatamente di leggere qualcos’altro sotto quella riga, ma il resto del foglio sembrava bianco. Com’era possibile che dopo un tale incipit non ci fosse un seguito?

E – soprattutto – com’era possibile che Mina avesse avuto qualcuno che la chiamava ‘amore mio’?

Sapevo tutto di tutti in famiglia, conoscevo anche i segreti più intimi e lontani nel tempo.

Non perché  a casa nostra ci fosse l’abitudine di parlarne apertamente… tutt’altro!

Ma, negli anni, per un bambino curiosissimo come me non era stato difficile ricollegare piccole confidenze ricevute, cucire frasi sfuggite qua e là e riordinare tanti indizi che, come tasselli di un gioco ad incastro, erano stati in grado di ricostruire e stivare nella mia testa la storia di ognuno dei miei parenti, compresi molti eventi da essi vissuti prima della mia nascita. Ovviamente ciò che più mi aveva sempre intrigato erano stati i rapporti più misteriosi, nascosti, personali.

E, se c’era una cosa di cui ero certissimo, era che la zia non avesse mai avuto uno spasimante, tanto meno un fidanzato o – che Dio ci liberi – un amante!

 

  Chi poteva averle scritto una frase così inequivocabile? Alla ricerca della parte mancante, incominciai a esaminare quel foglio da tutte le angolazioni possibili: sotto una lampada – prima a luce piena, poi radente – poi con una lente di ingrandimento, ma… niente, nessuna traccia di altre parole.

Poi, concentrato su quell’incipit che sembrava, più che sbiadito, sfumato, ebbi un’intuizione: posizionai la pagina controluce e, avvicinandola alla lampadina, immediatamente vidi, etereo come un fantasma, il testo della lettera con le parole che apparivano più trasparenti della carta. 

Ma certo: era stato usato l’inchiostro simpatico!

Ormai, dopo tutti quegli anni, aveva perduto la sua magica capacità di far apparire lo scritto avvicinandolo a una fonte di calore, ma aveva lasciato traccia sulla carta. Chissà se era stato usato il succo di limone, come io avevo fatto tante volte da bambino, o latte di fico, o succo di cipolla?

In qualunque caso – pensai – niente di più adeguato a una lettera conservata nell’Artusi!

Il fatto che il testo non fosse visibile, significava che il foglio non era mai stato accostato a una fiamma, e ciò mi fece ipotizzare che la zia non avesse letto nemmeno quelle prime tre parole che, forse, si erano manifestate casualmente in un momento in cui la ricetta era stata troppo vicina a un fornello acceso.

Impiegai ore a decifrarla, in controluce e con l’aiuto della lente d’ingrandimento.

 

Mina, amore mio

come di consueto accludo un mio saluto alla ricetta che Ersilia mi ha dettato e spero ti sia di giovamento pur certo che non hai bisogno di consigli in cucina.

Devo dirti che la settimana ventura Giacomo compie tre anni, e cresce bello e forte!

Son sicuro che quella data te la ricordi certamente.

Mina, sapessi come ti somiglia! Ogni volta che lo abbraccio mi figuro di abbracciare te e se lo guardo negli occhi è come rivedere i tuoi.

Lo ripeto e lo so che te l’ho già detto altre mille volte ma non mi stancherò mai di ringraziarti e Ersilia parimenti ti ringrazia sempre. Ma lei non sa quanto io ti ho voluto bene… e te ne voglio ancora anche se questa sarà una dannazione dell’anima per me e per te, tutta la vita.

Ma abbiamo giurato e i giuramenti non si possono rompere mai!

Ho comperato a Giacomo un bellissimo cavallo a dondolo di legno per il compleanno, e gli piacerà perché è un bambino molto vivace.

Spero che tu non ti affatichi troppo ora che sei la donna più grande in famiglia e chissà quanto dovrai darti da fare ogni giorno!

Riguardati e ricevi da me mille e mille baci.

Tuo per sempre

Edoardo

                                                                                               15 aprile 1908

 

  Ero senza parole. La prima cosa che feci fu cercare altre ricette che avessero quella calligrafia.

Ne trovai tre: scritte sullo stesso tipo di carta, e tutte mancanti della parte inferiore della pagina, chiaramente tagliata.

Quindi, ora tutto era chiaro: ogni ricetta che arrivava da Ersilia – dettata al marito – nascondeva una lettera segreta, scritta con l’inchiostro invisibile e poi distrutta dalla zia!

Iniziai a fare dei calcoli e arrivai alla conclusione che Mina era andata in montagna, dalla cugina, all’età di poco più di sedici anni, e non l’aveva aiutata alla nascita di Giacomo… per risolvere il suo problema di sterilità glielo aveva proprio partorito!

Me la immaginai, giovane e ingenua, arrivare in quella casa nascosta nel verde, e trovarsi coinvolta, certamente anche con la complicità di sua zia, in una cosa così seria e determinante. 

Edoardo, piccolo possidente, doveva avere ad ogni costo un erede.

Ricordando – da una vecchia foto di gruppo dove la moglie sembrava sua madre – come fosse giovane e attraente, non mi fu difficile credere che fra lui e la piccola Mina fosse sbocciato un vero amore.  Un amore che, evidentemente di comune accordo, non aveva avuto diritto di essere vissuto oltre la nascita di Giacomo.

 

 

  Altro che vergine, Mina era madre!

Ripensandoci, in effetti era sempre stata, nonostante la sua zitellaggine, lo stereotipo della Madre sia nell’aspetto che nel carattere, dolce e accogliente.

Scoprire che, a differenza di ciò che si era sempre creduto, aveva conosciuto l’amore, il sesso, e addirittura la maternità (quella fisica, perché quella dei sentimenti l’aveva abbondantemente dimostrata con i fratelli, riversandola su di loro al posto del vero figlio) fu una vera gioia per me.

 

 Riposi religiosamente l’Artusi nello scaffale da cui avevo osato risvegliarlo.

E mi guardai bene dal provare a preparare il Latte alla portoghese!

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