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BINARIO 8 

 

 

 

Mezzogiorno. Mezzogiorno in punto.

Binario 8.

Mario è lì, seduto sulla panchina di marmo. 

Nel momento in cui le lancette dell’orologio si allineano perfettamente sulle dodici, la sua attenzione si fa più viva.

Alza lo sguardo e si sporge in avanti per scrutare verso la testa del binario, oltre un gruppetto di giovani giapponesi che avanzano con valigie enormi, lucide e silenziose, che trascinano facendole scivolare sulle quattro ruote come fossero leggerissime. I loro caschetti di capelli, neri e brillanti, sono così uguali fra loro da non poter distinguere gli uomini dalle donne. 

Nessuna testa bionda, però, in arrivo.

Quando scatta l’ora X, nonostante l’esperienza decennale, Mario sente il respiro farsi affannoso e salirgli su, dal petto verso le spalle, creando una sorta di blocco alla gola. Sembra che il sangue, improvvisamente, affluisca tutto, in maniera violenta, alle vene del collo e pompi nelle tempie battendo forte dentro le orecchie. Il resto del corpo - le braccia e le gambe - diventano invece inermi, fragili e quasi insensibili, come se al sangue fosse stata sostituita dell’acqua.

A quel punto lo assale la paura di non riuscire più ad alzarsi in piedi, se dovesse vederla arrivare.

Eppure questa è la cinquantesima volta che si trova lì, in quel medesimo giorno dell’anno, a quell’ora precisa: “Da mezzogiorno all’una.” gli aveva detto Lucia, prima di partire.

Se ne era andata il 21 marzo del 1969, alle dodici e trenta.  

Dal finestrino del treno era stata chiara e decisa: “Non ti scriverò, non ti manderò il mio indirizzo. Mi aspetta una nuova vita. Se il destino lo vorrà ci ritroveremo qui, in un futuro primo giorno di primavera.”

Mario non aveva fatto passare un solo anno, da allora, senza essere presente a quell’ipotetico e improbabile appuntamento. Ogni volta aveva sperato di vederla sopraggiungere lungo il binario; la immaginava ancora con l’abito a piccoli fiori bordeaux che indossava il giorno in cui era salita su quel treno, diretta a Londra. 

Erano trascorsi cinquanta anni, e più di cinquanta ore aveva passato seduto su quella panchina, la stessa in cui si erano dati l’ultimo bacio.

 

Mezzogiorno e mezzo, ormai.

Ma nessuna testa dorata si è avvicinata.

Mario è cosciente del fatto che quei capelli sono probabilmente diventati bianchi, come i suoi, ma dentro di sé spera che Lucia abbia continuato a tingerli per mantenersi bionda.

Li aveva tanto amati, così morbidi, lucidi, che profumavano di shampoo.

Col passare del tempo, perpetuando quel rito di attesa, le aspettative di poterla riconoscere erano diminuite; tuttavia era certo che qualcosa - nello sguardo, in un gesto, in un movimento del corpo - al momento opportuno gli avrebbe fatto capire di trovarsi davanti a lei.

Negli anni gli era successo di credere di averla riconosciuta fra i viaggiatori che imboccavano il binario per salire su un treno in partenza ma, anche quando si era trovato sul punto di esserne quasi certo, non si era mai alzato per avvicinarsi: sentiva che le gambe non lo avrebbero sorretto.

Ogni volta era rimasto seduto, immobile, a guardare quella sconosciuta passargli davanti indifferente, e entrare nel vagone senza voltarsi indietro. 

 

Mezzogiorno e quarantacinque.

Anche i giapponesi, adesso, sono ormai tutti sul treno in partenza per Milano, e i pochi viaggiatori in ritardo si affrettano a salire. 

A Mario restano solo quindici minuti di speranza.

Poi dovrà rimandare tutto di un anno.

Settanta. Il prossimo anno compirà settant’anni. Lei, anche. 

Ne avevano diciannove quando si erano salutati su quel binario.

In mezzo a quelle due età, è trascorsa una vita.

Nonostante l’amore per Lucia lo avesse accompagnato per tutta la sua esistenza, Mario aveva messo su famiglia: una compagna amorevole, alla quale aveva voluto bene, e due figlie, ormai madri, che gli avevano dato quattro nipoti, già adulti. Sua moglie se ne era andata da cinque anni a seguito di una improvvisa malattia, dopo un percorso condiviso onestamente, lui impiegato di banca, lei insegnante: una vita tranquilla, senza lussi né privazioni. 

Ora viveva con serenità lo stato di vedovo e pensionato.

La sua forza era stata, da sempre, il ricordo di Lucia.

Il pensiero di lei lo aveva sostenuto - con quel significato che aveva insito nel nome - come una luce: lontana, ma così brillante da riuscire ad illuminare quella vita, un po’ grigia, che aveva vissuto.

Lucia di cui non aveva saputo più niente. Non poteva neppure essere sicuro che fosse ancora in vita. Ma il suo cuore gli diceva di sì. 

E un giorno sarebbe tornata.

Lo avrebbe cercato su quella panchina e lui si sarebbe fatto trovare lì, a riceverla.

E sarebbero stati nuovamente insieme.

Nessuno mai avrebbe potuto convincerlo a rinunciare a quella determinazione che portava avanti ostinatamente per onorare la promessa data: “Sarò su questa panchina, ad aspettarti, ogni inizio di primavera che verrà, da mezzogiorno all’una.” le aveva risposto quel giorno. 

Così aveva fatto. Ogni volta si alzava presto la mattina, indossava una camicia bianca, pulita, e il suo vestito migliore. In una tasca interna della giacca, quella a contatto con il cuore, metteva l’unica foto che aveva insieme a lei, quella scattata fuori dal liceo il giorno del diploma. E saliva sul treno che, da Nettuno, lo portava alla stazione Termini. 

Chissà, Lucia, che storia aveva avuto. 

Se lo chiedeva spesso e, soprattutto quando si trovava seduto su quella panchina, l’immaginazione lo portava a vedere scene di vita della sua amata. Non lo faceva soffrire l’idea che si fosse potuta sposare e che avesse avuto figli e nipoti; anzi, era contento di crederla circondata da una famiglia affettuosa, e se la figurava in una casa accogliente, felice, seduta davanti a un camino acceso… un po’ come in certe cartoline vittoriane. 

 

Cinque minuti all’una.

Il respiro di Mario incomincia a riprendere il ritmo normale.

Anche quest’anno è andato, inutile sperare ancora.

È rimasto solo lui sul binario.

Al di sopra delle pensiline si staglia un cielo così terso da essere abbagliante.

Alza lo sguardo verso la luce.

Il sole fa brillare un accenno di lacrime, che gli restano imprigionate negli occhi.

“Il prossimo anno sarà l’ultimo.” pensa.

 

“Ciao!” Una voce alle sue spalle.

Si gira.

La sua lingua si blocca, la sente incollata, un tutt’uno con il palato.

D’improvviso, è come se il cervello si fosse trasformato in un frullatore: gira vorticosamente, producendo un rumore infernale, macina immagini ad una velocità inaudita; mescola suoni, profumi, colori, tutto insieme, in un calderone che sembra fargli esplodere la testa.

“Ciao.” Ripete lei guardandolo con un sorriso amorevole e uno sguardo interrogatorio. “Sei tu?”

Mario la guarda, stordito, incredulo.

“Si, sono io.”

“Non ti avrei riconosciuto.”

“Neppure io”

Rimangono a lungo in silenzio, occhi negli occhi.

“Andiamo?”

“Andiamo.” Mario si alza, senza alcuna difficoltà.

Le offre il braccio, che lei allaccia con il suo.

Si avviano, lentamente, verso l’uscita.

“Sai, pensavo non fossi venuto. Ti stavo cercando sul binario 9. È vero che la panchina è in mezzo, ma tu stavi girato verso il binario 8.”

“Certo. Binario 8. È sempre stato il binario 8!”

“No, no. Ieri sera, sulla chat, mi hai scritto binario 9.”

Mario non risponde. 

Per un attimo il suo battito cardiaco si ferma: sente una fitta dolce, leggera, al torace.

Con una mano sfiora la foto che ha sul cuore.

“Grazie, Lucia.”

“No. Marina. Mi chiamo Marina.”

Si allontanano, sorridendosi. 

Una nuova primavera è iniziata.

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